Viaggiatori solitari

Pubblichiamo in esclusiva la premessa al libro Viaggiatori solitari di Cristiano Denanni, edito da Delirium Editions. Un viaggio nella Mancha che segue il cammino di Don Chisciotte, in cui l’autore intervalla il diario del suo percorso con straordinarie rievocazioni di grandi esploratori che conoscevano e sentivano con il cuore il vero significato del viaggio. Viaggiatori solitari è disponibile sia nella versione cartacea deluxe a 17.90€ sia in quella digitale in offerta speciale a 0.99€, entrambe le versioni sono arricchite da ventotto fotografie scattate dallo stesso Denanni fotografo professionista.

Se parti pensando di tornare, ti sbagli. Il viaggio non è fatto per questo. Il viaggio è l’ascolto del mondo. Di cose piccolissime soprattutto, e talvolta di cose molto grandi. E ascoltare non è scontato, ascoltare esclude la voce che ti dice ciò che vorresti. E dopo che hai ascoltato, se hai ascoltato veramente, e non hai soltanto ripetuto con la tua voce alle tue orecchie quello che già conosci, non puoi più tornare allo stesso punto di partenza.
Non si tratta di andare verso uno o più luoghi precisi, ma i più imprecisi possibile. Si tratta di imparare a perdersi. Quella cosa che sospettiamo essere il sinonimo di grande paura, ma che è l’unica possibilità di incontrare, vedere, sentire, trovare qualcosa. Quello che conosciamo, o immaginiamo di conoscere, non lo troviamo, lo sappiamo già.
Bello, brutto, non è questo il punto. Il punto è che non aggiunge né toglie nulla. Ecco perché un viaggio in un cassetto, come lo spartito di una sinfonia, non esiste davvero fino a che qualcuno non parte, come la sinfonia non esiste fino a che un’orchestra non lo esegue, quello spartito. Sì, è precisa, sì, è stupenda forse, sì, è potenzialmente un capolavoro, ma nessuno la sta ascoltando. E una sinfonia che non suona non c’è. Quindi se vuoi un viaggio, parti. Altrimenti non raccontarlo troppo a lungo, che fai una pessima figura. E non aspettarti nulla di quello che immagini ma augurati una strada sconosciuta e mai immaginata, e lascia che sia.
Dai posti più profondi e più sentiti in cui ho viaggiato fino ad ora, non sono mai tornato. Grazie al cielo! Opinione personale: non c’è cosa più noiosa del posto dove si è nati, fosse anche il palco del Paradiso. Sarebbe come pensare che il latte che ci dà la vita le prime settimane dopo la nascita sarà per sempre il nostro piatto preferito. Magari, assaggiamo qualcosa d’altro non appena ci capita.
Per farla breve, temo che il luogo di nascita sia un luogo comune. Noi non siamo di qui, per dirla con Michel Le Bris. Tentiamo una sorta di esperimento: facciamo un bel giro intorno a noi, concentrico. Magari sì, all’inizio per abituarci guardando anche solo noi stessi, da fuori, da tanti punti diversi. Che male non fa. Poi, a forza di girare prendiamoci la briga di allargare il raggio del cerchio ed allontanarci un poco alla volta e contemporaneamente spostando lo sguardo da noi al resto dei dintorni.
E allontanandoci, allarghiamo lo spettro del circondario. Allargandolo ascoltiamo il fruscio denso delle lingue sconosciute che piano piano succedono alla nostra, osserviamo i tratti somatici di chi non si fa tutte le mattine la barba come la facciamo noi, o si dipinge la faccia con tratti diversi da quelli con cui ce la

dipingiamo noi o non se la dipinge affatto… e invece di dire quello che abbiamo in mente da prima di partire, proviamo ad ascoltare che effetto ci fa il respiro del mondo in quel dato momento, in quel tratto della nostra vita, su quel palmo di cartina che avevamo aperto a casa ma che non c’entra nulla con quella faccia che abbiamo di fronte e con il venticello improvviso che ci suggerisce una canzone, o con il temporale che ci brucia le aspettative.
Poi, stiamo zitti. Fondamentale! Stiamo zitti e facciamoci spiegare dall’altro chi è, sia esso un venticello, un pastore o un temporale; perché se glielo spieghiamo noi potrebbe essere che abbiamo speso soldi e tempo per un’attività molto simile al buttarli nel cesso. Ci diciamo sempre che non ci piace buttare via il tempo e non ci piace buttare soldi, ma ci organizziamo per farlo scientemente. E non è il massimo per donne e uomini che provengono da un’evoluzione millenaria.
Insomma, facciamoci raccontare cose che non abbiamo mai sentito, se davvero come probabile non le abbiamo mai sentite. Facciamoci raccontare cose che ci conquistano o ci repellono, ma che sono lì, che sono il vero succo di ciò che abbiamo raggiunto.
Il mondo non è fatto a nostra immagine e somiglianza, e molti ancora se ne stupiscono. Il mondo è qui. È laggiù. È guerrafondaio e pacifista e anarco- insurrezionalista e islamico, monoteista, multidisciplinare, poetico, ossessivo. Ma non è noi trasposto nel voi. È noi. Ed è voi. È me. Ed è te. Non è fra i pianeti più grandi questo nostro mondo, anzi. Ma se volessimo, piccoli come siamo singolarmente, ne avremmo per una quindicina di vite mediamente lunghe e ben spese, a passeggiarlo tutto.
Quindi andiamo. Che cosa vogliamo di più? Un pianeta in cui abbiamo Istanbul, la città sdraiata su due continenti, e abbiamo l’Amazzonia, il polmone verde dove si perdettero fior di esploratori per cinquecento anni; un pianeta dove ai poli giace estrema la notte per mesi e l’alba si annuncia per poi ritrarsi a ogni giro della terra attorno al sole; dove abbiamo la Patagonia e il Nilo, il Mediterraneo e la Mancha… ad un pianeta come questo ci dobbiamo quantomeno presentare.
Anche per lasciare da parte, di tanto in tanto, quel colosso impolverato che siamo ed al quale il più delle volte rischiamo di parlare a vuoto, creando mulinelli di ossessioni che non esistono ma che poi ci fanno ammalare. Andiamo! Andiamo anche per scrollarci di dosso questa polvere. Andiamo per cercare un vestito nuovo, per trovare un tessuto che non sapevamo, per imparare anche solo 10 parole di un’altra lingua nella quale capire che, dire la stessa cosa che diciamo da sempre con un suono diverso, può significare essere noi stessi diversi, può significare che non si ama con un amore solo, può significare che siamo stati stupidi per tutto il tempo che ci siamo creduti sopraffini. Magari subito si rimane male, ma ci fa un gran bene.

Uscire, uscire anche e soprattutto da noi stessi, è salutare. Guardarci da fuori, come si diceva, e poi volgere lo sguardo altrove. E infine andare, fuori. Fuori dalla pelle, fuori dal maglione, fuori casa, fuori per la strada, fuori dal suono delle stesse parole, fuori di qua. Non solo noi non siamo di qui, ma probabilmente non siamo neppure quello che pensiamo.
Il nome che abbiamo non ci dice abbastanza. Non possiamo immaginare di farci raccontare per trenta, cinquanta, ottant’anni dallo stesso nome. Da quella parola che non ci sorprende neppure più. Da quel Cristiano, Viviana, Andrea, Francesca che rintoccano, ma il più delle volte non ci chiamano. Andiamo anche per questo. Per trovare altri nomi. Per guarire. Il fuori guarisce, dice Nicolas Bouvier. In qualche modo, da qualche parte, entro (oppure oltre) certi limiti, penso sia vero.
Possiamo non appellarci necessariamente a Ulisse o al capitano Achab, se ci spaventa possiamo partire mantenendo un profilo più basso. L’importante è ricordare che la parola nulla non esiste per chi viaggia. Esiste solo una bussola che si chiama tutto.
Quelle che seguono sono pagine che, prendendo spunto dal mio viaggio più recente e dal suo diario, effettuano una declinazione soggettiva sul Viaggio e sui viaggiatori. L’idea originaria è legata ad un reportage fotografico effettuato in Spagna lungo la Ruta de Don Quijote. Ho seguito molti dei luoghi che Cervantes fece attraversare al suo Cavaliere dalla trista figura in compagnia del fido Sancho, ambientando le avventure (e più frequentemente le disavventure) di cui veniamo a conoscenza leggendo il celeberrimo romanzo. Li ho seguiti e fotografati ed ho tentato di coglierne impressioni soggettive.
Certo, trama e personaggi del romanzo sono frutto di fantasia, ma i luoghi sono reali. E andare a ripercorrerli a distanza di almeno 400 anni da come li conobbe Cervantes è affascinante. La geografia è una forma del tempo con altri mezzi.
Il percorso che seguo è disegnato sulla base della mappa, dal più vicino al più lontano rispetto all’Italia, da cui parto in auto. Non ho la necessità di seguire filologicamente il romanzo. L’importante è cercare Chisciotte e i suoi luoghi. Per quanto riguarda il trovarli, si vedrà…
I capitoli del diario effettivo si alternano a quelli di un diario più ampio, a visioni di altri viaggi e viaggiatori. A visioni di altre possibilità ancora. Un viaggio, ed i viaggi. Un passo per gamba in spazi diversi di questo unico mondo rotondo.
Prima di partire con il racconto, mi piace però soffermarmi su di un piccolo episodio accaduto l’ultima sera a Toledo, ultima tappa del reportage. E da cui penso abbia senso cominciare per questa declinazione soggettiva che avete fra le mani.

Cerco un posto in cui cenare e, ricordando una taverna davanti alla quale ho trascorso il pomeriggio precedente, mi ci dirigo. Il cameriere ha tratti somatici nord-africani. Il titolare, che appena entro è seduto a cenare a sua volta, mi saluta con larghi cenni delle braccia da dietro un arco che fa da divisore fra due sale, come se rivedesse un caro amico che però non aveva mai visto. Semplicemente perché era la prima volta che entravo in quel locale.
Mi siedo ad un tavolo in un angolo e ordino. Poco dopo arriva un gruppo di persone, quattro in tutto, che si siedono a un tavolo non lontano da me. Una ragazza e tre ragazzi down. La ragazza ha l’aria di essere un’accompagnatrice. Danno subito l’idea di divertirsi molto e di essere affiatati. Chiacchierano, scherzano, mangiano, sorridono in modo dolce e sincero. Da solitario, ma curioso come sono, posso permettermi di fare una cosa che in compagnia sarebbe meglio fare il meno possibile: osservare oltre il mio tavolo.
Paolo Sorrentino dice che se hai una qualsiasi aspirazione artistica, uno dei segni che ti può confermare di essere sulla strada giusta è quello per cui se ti trovi in un ristorante per esempio, in compagnia di qualcuno, tu passi il tempo a osservare tutto ciò che c’è intorno eccetto il tuo tavolo. L’arte, o presunta tale, necessita di curiosità in dosi massicce… ma non spiega come spiegare all’altra persona che non sei maleducato, ma artista.
Comunque, l’esempio è perfetto. Non crei nulla, neppure una schifezza di una riga e mezzo o una foto sfocata se non guardi maniacalmente ciò che ti sta attorno. Per chi non è un artista, come il sottoscritto, credo si possano comunque trovare ottimi compromessi. Osservando quel gruppo di ragazzi, quella sera, mi sorprendo a pensare e a ripetermi questa frase: “ma siamo noi, i paesi…”
Non è un’intuizione geniale, ma mi è parsa immediatamente come necessaria. Infatti torno in albergo e appunto questo pensiero, che da quell’immagine dei ragazzi felici in poi mi ha ronzato nella testa, sulla lingua, sottovoce, per qualche ora.
Siamo noi, i paesi. L’origine ed il delta delle nostre cose. Siamo noi e ci perdiamo, ma siamo noi inizio e fine. Ecco perché è importante perdersi. Siamo noi la geografia, la traccia ostinata della matita sul gioco del mondo che ci fa perdere tempo, amicizie, gioco e serietà, ma che poi sa darci il bacio dietro l’angolo che pensavamo non avremmo più meritato.
È in noi la complessità del disegno e la semplicità del risultato. È in noi ciò che si vede e che si cerca, che si vorrebbe dire ma ci si nega. È un uomo con i baffi neri che, nella sua camicia magra, osserva il tempo in una strada di Villanueva de Los Infantes, incontrato in questa Mancha riordinata dal vento. È qui, ed è ora. Geografia e storia. Possiamo nascere ottusi e morire fantasiosi.
Siamo paesi interi, figuriamoci! Possiamo imparare addirittura a imparare. Siamo stranieri soltanto fino a che non impariamo ad ascoltare.
Solo che per ascoltare ci vuole tempo, ed il tempo senza di noi non vale nulla. Eccoci tornati alla partenza: ma una partenza in cui non vi è più nulla di ciò che avevamo lasciato. Allora, siamo o non siamo pronti a partire? Siamo o non siamo disposti a cedere il passo?
Facciamo quasi sempre le stesse strade ed è un peccato, perché siamo più importanti della sconfitta o della vittoria cui abbiamo attribuito tutto. Perché qua dentro vi sono migliaia di chilometri di strade, e invece andiamo sempre solo dalla camera da letto al bagno. Eppure siamo noi il viaggio. Siamo noi i paesi, la verità che ci fa male ma ci libera. Il precisissimo dubbio di ogni
cosa. Che non abbiamo capito che non dobbiamo risolvere, ma dobbiamo vivere. Non dobbiamo raddrizzarla la strada, dobbiamo percorrerla.
Perché siamo questa possibilità. Qui. E ora. E possiamo imparare e insegnare. Sempre.
È questo che ho pensato per una sera intera, alla fine di un viaggio che ora comincia su questa strada di parole e continua.
(…) Partì un bel mattino di luglio
per conquistare, il bello, il vero, il giusto.
Davanti a lui c’era il mondo
con i suoi giganti assurdi e abbietti,
sotto di lui Ronzinante
triste ed eroico.
Lo so, quando si è presi da questa passione
e il cuore ha un peso rispettabile
non c’è niente da fare,
Don Chisciotte,
niente da fare, è necessario battersi
contro i mulini a vento.
Hai ragione tu, Dulcinea è la donna più bella del mondo, certo
bisognava gridarlo in faccia
ai bottegai, certo
dovevano buttartisi addosso e coprirti di botte,
ma tu sei il cavaliere invincibile degli assetati,
tu continuerai a vivere come una fiamma
nel tuo pesante guscio di ferro e Dulcinea
sarà ogni giorno più bella.
(Nazim Hikmet)

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