Nel cuore del rock

“Where the streets have no name
Where the streets have no name
We’re still building then burning down love
Burning down love
And when I go there, I go there with you
It’s all I can do”
(U2)

Ci sono luoghi che non si visitano ma si attraversano come un concerto che ti cambia la vita. Il Rock ‘n’ Roll Museum Experience di Dublino è uno di quelli, sospesi tra leggenda e realtà, dove ogni parete è un amplificatore di emozioni e ogni oggetto custodisce un battito di storia. Ad accompagnarci in questo viaggio è Alan — attore, conoscitore profondo dell’anima irlandese e dei suoi suoni. Cammina tra le sale con l’eleganza di chi ha visto tutto, e racconta con voce calda e avvolgente che fa venire voglia di ascoltare per ore. Ha incontrato tutti: da Bono Vox a Rory Gallagher, dai Pogues a Dolores O’Riordan. Ma è quando ci mostra una fotografia dai contorni sbiaditi, che l’atmosfera cambia.

Sinead: non solo note

Lì, Alan è poco più che trentenne una cascata di capelli corvini e un sorriso guascone, accanto a una giovanissima Sinéad O’Connor, col suo sguardo fiero e vulnerabile. La cornice? Non un palco, ma un corridoio d’ospedale.
“Quella mattina,” racconta Alan, “Sinéad si era svegliata decisa a fare qualcosa di concreto. Mi chiamò e mi disse: ‘Andiamo dove c’è bisogno di voce, ma senza cantare’. Così passammo il pomeriggio in un reparto oncologico, a leggere poesie, a stringere mani, a portare tè e cioccolata. Lei non smise mai di sorridere.”
Un silenzio reverente cade sul gruppo. È in quel momento che capiamo: questo non è solo un museo, è un cuore pulsante. Nella sala successiva ci imbattiamo in un oggetto indecifrabile, di primo acchito. Pare la giacca di un Kimono turchese imbrattata di decorazioni dorate. “Ci credereste che Micheal Jackson ha barattato il suo pigiama per un Mark’ and Spencer. Lo scambiò con il nostro fondatore in un hotel di Los Angeles. Jackson era affascinato dalla sua giacca. L’indossò e, senza dire nulla, gli porse il pigiama come fosse la cosa più naturale del mondo.” È lì, in una teca, a ricordarci che i miti, prima di essere icone, sono stati persone.

U2: compagni di scuola

Poi si entra nella sala degli U2. Tutto parte dal garage di Larry Mullen Jr., dal famoso annuncio affisso alla Mount Temple School nel 1976. Bono, The Edge, Adam. Le prime prove, le risse adolescenziali, le magliette sudate, gli amplificatori scassati e le madri urlanti, tra pasticci di rognone e torte ai mirtilli.
E Alan lo ricorda bene: “Erano bravi, certo. Ma soprattutto credevano in quello che facevano. Non si trattava di fama, si trattava di verità. Di musica come atto di fede.”

Gallagher: e le chitarre in dono

Tra una sala e l’altra, emergono storie: Rory Gallagher che regalava le sue chitarre ai fan più giovani dopo i concerti, Dolores dei Cranberries che ogni Natale tornava a Limerick per cantare nelle scuole, Glen Hansard che una volta si presentò al museo di sorpresa e restò a suonare per ore, chitarra alla mano, come se fosse ancora un busker di Grafton Street.Il museo è anche interattivo: si entra in una sala di registrazione, si incide una traccia, si sale su un finto palco dove le luci ti abbagliano e il microfono è caldo come prima di un bis. Per un attimo, sei tu la voce.

Uscendo, Dublino si mostra nella veste a cui ormai siamo avvezzi. Pioggia leggera e strade bagnate di storie. Ma qualcosa è cambiato. Abbiamo visto il cuore dietro la fama, il gesto dietro il riff, la poesia dietro il rumore. E capito che il rock, quello vero, nasce dove c’è umanità.
A Temple Bar, in un museo che non è un museo, ma una memoria viva. E Alan, che lo abita come un cantastorie antico, ne è il custode più prezioso.