Di Isabella Pesarini
Secondo sabato di luglio, pomeriggio inoltrato. In un susseguirsi di incontri, seguendo le orme di piccole coincidenze, una alla volta, chissà quale caso vuole che mi trovi alla rocca medievale di un borgo romagnolo che porta il nome di Forlimpopoli. L’occasione è ghiotta, soprattutto per chi, come me, è costantemente affamato di cultura e di culture. Ogni anno la rocca di Forlimpopoli ospita il Festival Internazionale di Didjeridoo, un festival musicale che celebra la musica suonata con lo strumento musicale aborigeno per eccellenza e di approfondimento per tutto quello che concerne l’Australia.
Ho appuntamento con uno scrittore di viaggi attraverso il continente rosso, per quello che lui ama definire il blue side of Australia, il mare, da buon surfista perennemente alla caccia dell’onda. Verso le sei finalmente lo incontro ed egli mi porta a una tavola rotonda sull’Australia a cinque minuti dalla rocca: scendiamo per gli scalini di un intrigante sotterraneo che porta l’odore di antichità dall’alto delle volte ricoperte di pietroni che hanno superato il susseguirsi di chissà quante guerre medievali. Ci troviamo nell’interno della Romagna, nel cuore dell’Italia autentica, quella che porta la firma di stradine piccole e labirintiche, di colli e infiniti vigneti, di sapori e di tradizioni, da custodire e da portare avanti. Mi chiedo: cosa c’entra qui l’Australia? La risposta è fornita dalla tavola rotonda.
Dopo due ore di interventi del responsabile di una compagnia aerea specializzata per i viaggi in Australia, di un tour operator che vanterà un’esperienza trentennale, dal suo double-hat alla Crocodile Dundee, di una quasi agenzia turistica che tratta solo il Northern Australia sotto varie prospettive, di un’associazione di orientamento molto utile per districarsi tra visti, ricerca di alloggi e di lavoro e di vita sociale per chi si appresta a incominciare lì un’esperienza di vita, più o meno temporanea, fino alla documentazione documentarizzata nei dettagli dell’Italian Dreamtime che ha portato oltre 70000 italiani a rimanere in Australia dall’immediato Dopoguerra, fino all’intervento finale dello scrittore surfista, italianissimo pure lui; dopo tutto questo, dove tutti coloro che sono intervenuti sono assolutamente italiani, mi sento di affermare: sì, c’è dell’Italia in Australia! Un’Italia che lavora, un’Italia che si reinventa, un’Italia che, comunque vada, perlomeno ci prova, un’Italia che si è organizzata e che ha portato pure artisti internazionali del panorama musicale del didjeridoo qui a Forlimpopoli!
Teatro interno alla rocca di Forlimpopoli, nove di sera. Per ripararsi da un temporale che richiama più l’autunno che il ben conosciuto solleone di luglio lungo le colline romagnole, la carrellata musicale viene spostata all’interno e … sorpresa! La rocca ospita un teatro d’epoca molto ben tenuto, con tanto di due piani di spalti per i posti in galleria e una simpatica platea in miniatura al lato destro delle prime file, che scopro essere i posti riservati per me e lo scrittore surfista. Già, perché quest’anno mi ritrovo a introdurre questo fantastico narratore di viaggi, tal Winki, presenza pressoché fissa al Festival. Dalla conversazione letteraria con lui vengo a scoprire parecchie curiosità sul didjeridoo: strumento aborigeno ricavato dall’albero di eucalipto, il didjeridoo originale viene trovato da un suonatore aborigeno, il quale, esaurita poi la sua funzione, lascia nuovamente il didjeridoo di modo che qualcun altro, di passaggio, possa trovare questa meravigliosa manifestazione della natura che, da un ramo d’eucalipto scavato dalle termiti, si trasforma in uno strumento musicale capace di emettere vere e proprie vibrazioni profonde, suoni che arrivano direttamente all’anima. Infatti il didjeridoo viene suonato dalle comunità aborigene in occasione di cerimonie sacre. Non posso non pensare al Dreamtime, al Tempo del Sogno, alla mitologia aborigena della creazione, secondo la quale l’uomo è custode della natura, che perciò deve essere protetta. Un punto che ancora non capisco è l’esclusiva maschile nel ruolo di suonatore del didjeridoo, esclusiva che vale solo all’interno delle comunità aborigene.
E musica sia! Il gruppo d’apertura viene da Asti, completamente italiano: gli Orange Project. La creatività italiana, ancora una volta, ha trovato il suo equilibrio nel mixare sonorità rock’n’roll partendo dal trio più classico, quale chitarra-basso-batteria, per osare con un sassofono strepitoso e il protagonista della serata, vari tipi di didjeridoo di lunghezza variabile anche di qualche metro, a seconda del ritmo e della sonorità da eseguire. Sento le spalle che già si muovono, è praticamente impossibile riuscire a rimanere fermi con questi ritmi vivaci che proprio ti arrivano addosso!
Il secondo artista è una leggenda del didjeridoo, di nazionalità … croata! Dubravko interpreta le sonorità dello strumento australiano in modo più interiore, quasi spirituale. Già al primo brano avverto anch’io la necessità di chiudere gli occhi, per tornare al cuore, all’interno di me stessa, senza più avvertire alcun tipo di condizionamento esterno. Le vibrazioni sonore emesse dai vari didjeridoo suonati da un maestro d’eccezione calmano le tensioni, le cellule e i tessuti vibrano in sintonia, la sensazione è quella di benessere completo, di armonia.
L’altalena della vita fa passare di continuo da una sensazione a una completamente differente, perciò da un climax quasi spirituale del suonatore croato il gran finale è il concerto dei Wild Marmalade, che, come ripete Winki da ore, “fanno ballare anche le sedie”. Un quasi medico d’Australia che ha scoperto la propria vocazione per il didjeridoo e un batterista inglese che muove le mani su qualsiasi cosa che produca suoni e percussioni, da un sedile ai sacchetti di plastica per la frutta e verdura fino, anche, alla batteria vera e propria, alla velocità delle ali di un colibrì, si sono incontrati per formare un gruppo musicalmente d’avanguardia. Non mi accorgo nemmeno che sto ballando scatenata già dal primo brano! Così tutto il teatro! Anche in galleria il pubblico ha trovato il modo per interpretare col corpo ritmi e sonorità più che vivaci, non c’è altra parola: da ballare!
Ripenso all’esclusiva maschile nel ruolo di suonatore di didjeridoo all’interno delle comunità aborigene. Guardo gli strumenti: la forma è visivamente virile. Ricordo i ritmi ascoltati e, soprattutto, ballati, in queste cinque ore di festival musicale: vivacità e vitalità sono le parole d’ordine. Per questi motivi non credo affatto che la cultura aborigena sia portatrice di chissà quale mentalità maschilista per quanto riguarda il didjeridoo, semplicemente ha riconosciuto il ruolo del maschile che questo strumento porta a far emergere.
L’appuntamento si ripete l’anno prossimo. Chissà, sempre che per quelle date non mi ritrovi in Australia!