Alla scoperta della Petra rossa (II parte)

Di Eleonora Boggio

Pareti di arenaria arancione

Eccola, infine, Petra, la città figlia della roccia voluta dai nomadi arabi del primo secolo avanti Cristo. Non è rosa, come nell’iconografia classica, ma arancione.
Artefice del miracolo cromatico è il sole che con i suoi spostamenti continui permette una metamorfosi della facciata del tesoro. Complice naturalmente l’arenaria, amabile roccia che si fa plasmare come creta ad uso e consumo dell’architetto che la tocca. Ma il tesoro, la cui edicola reca ancora i segni dei cannoni per un tentato furto, è solo l’anticamera.
Oltre ottocento sono i monumenti censiti fino ad oggi, sebbene il numero resti tuttora provvisorio, con pezzi di spicco nabatei e romani. Infatti, se i nomadi provenienti dall’Arabia furono i primi a lasciare traccia del loro passaggio sulla regione giordana abitata dagli Edomiti, i romani proseguirono in epoca successiva.
Petra è magica con le sue edicole, frutto di una commistione di stili che solo un popolo nomade può conoscere e piace perdersi seguendo la linea del cardo, arteria che la attraversa da est a ovest e su cui si affaccia la maggior parte dei monumenti. Lo sbigottimento è grande e si è colti da un improvviso imbarazzo, tanto da non sapere da che parte guardare. Il teatro, costruito durante il regno di Aretas IV, con la sua possente struttura in grado di contenere fino a tremila spettatori, precede le tombe reali scavate nelle rocce del Gebel el-Khubtha. Queste appaiono al visitatore in una successione che è un crescendo: dalla tomba dell’urna dal grande timpano frontale, a quella corinzia su due piani, fino alla tomba palazzo che conduce a quella del soldato: struttura a più piani dal portentoso colonnato. Un arco di epoca romana e un anfiteatro introducono al momento più emozionante dell’escursione a Petra.

Tombe reali scavate nelle rocce
Ci si impiega due ore per raggiungerlo e dal momento che la luce migliore per scoprirlo è quella del pomeriggio inoltrato, si deve preventivare un itinerario dove canicola e sudore saranno compagni fidati. Non sono pochi coloro che affermano che dal Monastero si abbraccia il colpo d’occhio migliore della Giordania.
Così mi aggrego alla carovana dei temerari. È l’una e il ruggente sole del deserto sembra irridere gli “scarpinatori” in fila indiana.
Il percorso è ancora una volta attraverso uno stretto canyon caratterizzato però, a differenza del Siq, da una grande pendenza. Dopo circa mezz’ora di viaggio in cui gli unici compagni d’avventura sembrano essere sonnolenti ciuchi, deformati dal peso di sproporzionate turiste americane, il capo-spedizione comincia ad annunciare una cupola. Ma è solo un miraggio nel deserto. Qua e là qualche bambina si ingegna in modeste trattative di vendita con i pochi turisti in cammino verso la vetta.
Più di una ci segue e alla fine tutti recuperiamo, in cambio di qualche dirham, una manciata di sassi colorati che, con la loro zavorra, renderanno ancora più agevole la risalita.

Il Tesoro inondato dai colori del tramonto

Intanto la cupola si fa più vicina. Peccato che il sole si faccia oltremodo cocente. Altra mezz’ora quand’ecco finalmente comparire la tanto vagheggiata foggia del Monastero. Vista dal basso, penso si tratti dell’ennesimo abbaglio fino a quando mi trovo di fronte alla facciata: ieratica icona ellenistica strappata alla pietra.
È simile al tesoro nella sua struttura a due piani, ma risulta molto più imponente nelle dimensioni. Non solo: a differenza del tesoro, la cui facciata rappresenta l’unico intaglio nella roccia, il Monastero abbandona fino alla cupola l’arenaria da cui nasce. Santuario dedicato al re Oboda IV rappresenta una splendida visione per chi, sfidando altezza, pendenza e lunghezza del percorso si avvicina.
Gustiamo l’ennesima metamorfosi cromatica rinfrescandoci con un te alla menta nella tenda beduina prospiciente la facciata; ma è già tempo di ripartire.
Vogliamo inseguire il tramonto su uno dei due picchi che partono dal Monastero.
Lo spettacolo del crepuscolo è commovente: l’arenaria da gialla si tinge di rosso, per scivolare nel rosa sul far della sera. Ancora una volta, una vedetta lontana rincorre col suo flauto il suono del vento. E’ un momento speciale; da assaporare in silenzio.

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