La “dogaressa” collezionista
A questo punto non restava che trasferire la collezione, da mesi ospitata in un padiglione della Triennale, nelle sale del palazzo Venier. Per fare questo era opportuno trovare un pretesto al fine di ovviare alla clausola medievale che imponeva il pagamento di onerose tasse doganali.
L’escamotage fu offerto da una mostra nei Paesi Bassi. Infatti, in occasione di un vernissage ad Amsterdam, la collezione fu prestata interamente: ciò significava che i pezzi uscivano temporaneamente dalla giurisdizione italiana. Questi rientrarono attraverso un piccolo posto di frontiera che non fu in grado di valutare l’effettivo valore del lotto, quotato solo per un milione di lire. A questo punto la collezione era pronta per insediarsi nelle luminose stanze di Palazzo Venier.
Uno dei primi inquilini fu il dibattuto “Angelo della Città” di Marino Marini che trovò posto nel terrazzo affacciato sul Canale. La scultura era dotata di un “membro removibile” che, in presenza di prelati o esponenti ecclesiastici, veniva svitato all’occorrenza e rimosso. Naturalmente gli aneddoti sulla statua e sulla sua appendice si sprecano: c’è una foto di Jean Arp – amico di lunga data della Guggenheim – che fuma il fallo staccato come un sigaro e un’altra che immortala lo storico d’arte, nonché omosessuale, James Lord, in groppa al cavallo dietro il cavaliere.
Minimo comune denominatore dell’intera collezione resta comunque uno spiccato eclettismo di oltre duecento esponenti dell’avanguardia contemporanea: Braque, Duchamps come rappresentanti di cubismo e futurismo. Mirò, Giacometti ma anche Dal per il surrealismo e Pollok, Mondrian e Kandinsky per il dadaismo. Un ampio ventaglio di artisti per una varietà di correnti.
Sei i nomi rappresentati da un numero maggiore di opere, tra cui spiccano Picasso, Giacometti e le persone che, nel bene e nel male, popolarono la vita della Guggenheim. L’amico Pollok, alcuni dipinti fiabeschi della figlia Pegeen, che rifiutò la vita a causa di un amore difficile e Max Ernst con cui condivise un rapporto controverso durato oltre vent’anni di reciproca dipendenza, nonostante i ripetuti abbandoni; una complicità unica che portò a una simbiosi autolesionistica foriera di grandi opere, da una parte, e di importanti intuizioni, dall’altra. Due vite e un solo destino che ha reso entrambi immortali nel nome dell’arte.
Ritorno al futuro
Peggy Guggenheim muore nel dicembre del 1979. Le sue ceneri saranno sepolte nel giardino accanto alle spoglie dei cani; i “diletti bambini” che, a differenza degli uomini che avevano costellato la sua vita, l’accompagneranno fino al congedo finale.
Nel mese di Aprile dello stesso anno, la collezione “Peggy Guggenheim” apre i battenti con la veste di museo pubblico, realizzando il sogno della sua proprietaria di sopravvivere a sé stessa, perpetuandosi in una realtà a tutti visibile.
Nonostante siano trascorsi venticinque anni, la piccola collezione sulla riva destra del Canal Grande continua a richiamare ogni anno oltre trecentomila visitatori. I più scettici dicono che parte di questo numero sia dovuto alla vita sregolata della sua ultima proprietaria, che si dilettava a prendere il sole nuda sul terrazzo dell’edificio, indossando vistosi occhiali a forma di pipistrello disegnati dal pittore neo-romantico Edward McElcarth.
Altri motivano il successo per la lungimiranza della Guggenheim; veggente e credente che, in modo più o meno inconscio, aveva intuito l’entità delle forme d’arte che avrebbero caratterizzato il nucleo dell’avanguardia contemporanea. Sebbene, forse, sia semplicemente superfluo cercare un perché: la collezione è affascinante così come il suo giardino dove bronzi di Max Ernst e troni bizantini accolgono il visitatore, novello Adamo nel giardino dell’Eden. Naturalmente c’è poi la cornice dove è inserito il palazzo, a rendere tutto più lirico. “Se qualcosa può rivaleggiare in bellezza con Venezia, non può essere che il suo riflesso nel Canal Grande”, scriveva la Guggenheim.
Mentre il roco vociare del traghetto segnala l’epilogo della mia giornata nel Palazzo dei Leoni.